Giochi?

 

“Papà! PAPA’!! Vieni!”

Non ha ancora sfumature, la sua voce. Corre a passettini saltellanti dal salotto, chiamandomi a gran voce, senza attendere la mia risposta, né stare a sentire le mie resistenze perché ho le mani occupate. E’ tutto imperativi: vieni, alza, voio, dammi. Alle sue richieste si obbedisce. Certo, non è sempre così, spesso ci tocca dire di no. Non puoi mangiare la frutta prima di cena, non puoi guardare la tv quando è ora di fare nanna, non puoi uscire scalzo sul balcone perché piove. E allora a volte sono capricci, a volte pianti. A volte sono proteste silenziose: seduto con il broncio e le braccia incrociate, ti spinge via con le manine se ti avvicini, e ti fa di no con il ditino sentenzioso. Trenta mesi circa, come li contano ancora certe mamme che ho incrociato al parco giochi, e che ogni volta fatico a tradurre in due anni e mezzo. Trenta mesi uno diverso dall’altro, uno più complicato dell’altro. Due anni e mezzo, e il ditino appoggiato al mento mentre cerca di decidere quale film vuole guardare questa sera. No, certo che non sa ancora leggere. Ma sa di certo riconoscerli dalla forma delle lettere che compongono il titolo, suppongo. E sono minuti interminabili, mentre siede sulle mie braccia ed esamina il catalogo intero dei nostri dvd. “Vuoi guardare i Puffi?” “No” “Madagascar?” “No” “Ape Maia?” “No” “Masha e Orso” “No” “Formiche?” (Sarebbe Bug’s Life) “No” “Guardiamo Alvin?” suggerisce la mamma, stanca di aspettarci seduta sul divano. “No”, risponde lui. “Arancia Meccanica?”suggerisco io, giusto per vedere se cambia opinione.”No. Nononononono….” fa lui, e poi finisce col scegliere i Puffi. Guarderà si e no venti minuti, prima di andare a dormire. E intanto facciamo il riassunto delle novità, il suo asilo, il vasino, il fatto che ha cominciato a pronunciare correttamente il suo nome, e che differenza con le femminucce della sua età che sono tre passi avanti, e ormai chiacchierano irrefrenabili, e che ci vuoi fare: noi maschi siamo un po’ più tordi.

Lui intanto si strofina gli occhi di nascosto, per non far vedere che è stanco.

Oppure i pomeriggi come oggi, quando fuori il mondo è tutto pioggia e nebbia, e chisseneimporta se è maggio. Ci sono tredici gradi scarsi là fuori, e allora noi ce ne stiamo nella tenda da indiani riempita di peluche: la sua tana dell’orso, come la chiama lui. E giochiamo a giochi misteriosi, che ancora è presto per strutturare in modo complesso le sue fantasie. Illumina gli occhi dei pupazzi con la sua pila, la nasconde e finge di averla persa, si tuffa tra gli animali di pezza e vuole che io venga con lui in quel mondo. Ed io mi chiedo se ricorderà tutto questo, la mia voce che lo rincorre per casa e il rumore della pioggia chiuso fuori dalla finestra. I pomeriggi azzurri nel parco giochi davanti a casa nostra, i lividi alle ginocchia quando cade dal monopatino, il rumore della palla da basket dei ragazzi grandi che giocano partite interminabili in attesa che si faccia estate. Di tutto questo, cosa si porterà con se?

I primi ricordi che ho di me stesso non so nemmeno se mi appartengano. Il primo ricordo è arcano: sono in braccio a mia madre, coperto da un sottile velo di cotone, come si usava una volta per proteggere i bimbi dalla polvere onnipresente, e dal sole inclemente. Nient’altro. Non posso avere più di una paio d’anni, forse proprio l’età di mio figlio. Il secondo è di notte. Guardo nel cielo una luna immensa ed un cielo buio, e chiedo a mia madre dov’è mio padre. “Lontano” mi dice. “Quanto lontano?” chiedo ancora. “La vedi la luna? Il papà si trova in un posto lontano quanto la luna.” Ed io, non ancora soddisfatto della risposta, chiedo:”E come farà a trovarci, quando verrà?” E mia madre mi risponde:“Il papà conosce la strada di casa.” Non conoscevo ancora mio padre, non sapevo ancora di quanto l’avrei odiato, che un giorno l’avrei lasciato indietro, che a causa sua oppure semplicemente a causa della vita me ne sarei andato. Che non sarei più tornato. Ma questo ricordo non è puro, non è solo mio. Non avevo ancora tre anni, non posso ricordare. Come molti dei ricordi dell’infanzia, anche questo non è che un complesso di sovraimpressioni: i miei ricordi, e i racconti dei ricordi degli altri di quel momento, e forse anche i sogni, e il ricordo delle tante volte che quel ricordo l’ho sognato.

Il terzo ricordo è la sera in cui lui è tornato. Io ne avevo curiosità, e paura. E non osavo avvicinarmi, né allontanarmi da lui. Ed era sera, lui era stanco e ancora euforico di essere a casa. Si appoggiò con noncuranza al tavolo, ed io cercai di imitarlo. Ma troppo piccolo ancora per raggiungere il bordo del tavolo, caddi seduto. Risero tutti quanti, e mio padre forse rincuorato da questo momento, mi prese in braccio. Non ricordo altro.

Saranno così i ricordi di mio figlio?

Ricorderà questi pomeriggio di pioggia in cui siamo stati insieme? Gli resterà il profumo dei peluche lavati da poco, perché la polvere non si accumuli tra le cuciture? Gli resterà la mia voce che lo chiama, le mie braccia che lo sollevano dal lettino quando finisce il riposino pomeridiano? Si ricorderà di me che cedo alle sue richieste di prendere il basso appeso al muro, e di farglielo suonare?

Sognerà un giorno questi giorni che si susseguono, uno diverso dall’altro, uno più complicato dell’altro? Magari senza un ordine apparente, così: come avvenimenti che accadono tutti insieme al di là dell’orizzonte degli eventi, in un sogno che molti chiamano vita, e che in certi momenti sembra non finire mai.

 

Johanna Newsom: Sapokanikan

 

Giochi?ultima modifica: 2016-05-13T08:17:29+02:00da lab79
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