Quattro passi e due pensieri in tasca

Ho imparato da tempo a camminare, ed è un esercizio che faccio volentieri sovrappensiero e impreparato. Le scarpe scomode e troppi vestiti addosso. Certe volte nella testa nessun pensiero, altre volte invece troppi.

Nell’ultimo caso, li faccio correre nella ruota dentata che alimenta la mia coscienza. E loro diligenti corrono, all’inseguimento di nulla, come ogni topo nella ruota che si rispetti. Ma il primo caso è più peculiare: perché se non ho pensieri miei da pensare mentre cammino, spesso ne raccolgo altri che trovo lungo lungo la strada, e che non appartengono ancora a me. Come sassolini li metto in tasca e quelli disordinatamente sbatacchiano tra di loro, ma come smorzati dalla stoffa dei pantaloni. Certe volte con la scusa del freddo metto le mani in tasca e ne rigiro qualcuno tra le dita.

Certe altre volte (Ma cerco di evitare, e lo faccio sempre più di rado) ne tiro fuori qualcuno e lo ammiro alla luce del sole. E il più delle volte è un pensiero grezzo, abbozzato e probabilmente abbandonato perché mal riuscito, e gettato a terra tra i tanti pensieri sprecati che si fanno. Con le orecchie guardo dove metto i miei passi, e cerco di decifrare le migliaia dei pensieri degli altri che formano il fondo scricchiolante su cui percorriamo le nostre comuni strade. Che noi immaginiamo asfaltate, o quanto meno lastricate di buone intenzioni. E invece il più delle volte sono ricoperte della ghiaia polverosa dei pensieri rimpianti e quindi abbandonati lì: che almeno separino le nostre scarpe sfatte dal tanto camminare, dal fango di cui è fatto il mondo.