Elogio dell’ipocrisia

La sincerità è sopravvalutata.

Certo, è necessaria per non rendere la nostra vita (e quella di chi ci circonda) un inganno. Si sta benissimo negli inganni, ben inteso, a patto che funzionino. Ma se proprio vogliamo sentire di aver raggiunto una vita piena, la sincerità è necessaria. Ma fa male, questo credo lo sappiate tutti. E non è detto che sia un male medicinale, che porti poi dei benefici. Non è detto che la sincerità sia un male necessario. Peggio ancora va alla franchezza, sorella meno raffinata della sincerità. La cui differenza sta nei modi, nelle parole scelte e nella noncuranza del dolore degli altri. La differenza sta nella scelta: la sincerità sceglie di dire la verità, con tutta la delicatezza possibile, se possibile. La franchezza sceglie di dire la verità senza giri di parole. Anche quando la verità fa male. Anche quando la verità non è necessaria.

Ma né la sincerità né la franchezza sono per forza pure. Si può essere sinceri per convenienza, perché illuminare la verità con una luce gentile può comunque scatenare una reazione di cui trarre vantaggio. Perché ferire con la brutalità della franchezza può essere una soddisfazione del nostro sadismo.

Forse perché entrambe figlie della verità, e la verità come gli dei è assoluta. Limpida e lucente di se stessa, meravigliosa e terribile come il mare, e come il mare incurante dei nostri destini. La verità, come dicono che dicesse qualcuno, è la fine del mondo.

 

E l’ipocrisia? Oh, certo. La viscida ipocrisia che con voce delicata elargisce menzogne al mondo, in un angolo della stanza col cappuccio tirato sugli occhi. La scaltra ipocrisia, che chissà quali mire nasconde, che chissà a quali troni ambisce. E chissà se invece, di tanto in tanto, regala bugie che addolciscono la verità, e che riscaldano il cuore. E a volte non è nemmeno necessario che siano bugie incartate nella menzogna. Certe volte può persino bastare una bugia nuda, piccola come una caramella e consegnata sulla mano di qualcuno che piange, per svelargli la verità che giace nel fondo del cuore dei bugiardi.

Dell’amore

 

Una delle tante cose di cui si può accusare questo blog, e di conseguenza il suo autore, è di essere eccesivamente sentimentale, fino a sfiorare il sottile confine con il melenso. E’ vero, è una critica che accetto. D’altronde, questo quaderno è a questo che serve: a confinare quel lato patetico che a quanto pare fa parte di me, in un luogo definito: il Tartaro del mio cuore.

Eppure, almeno questo me lo concederete: se c’è una parola che di rado ho scritto, quella parola è proprio Amore.

E non è un caso. E’ forse una delle poche parole che non amo. La trovo ridondante, barocca. Quasi inutile, ed impronunciabile come una maledizione. Uno scrigno ingannevole, dal contenuto apparentemente dolce ma in realtà mellifluo, e che non fa che attirare le mosche. Ancor peggio va alla declinazione “Ti Amo”. Quanto di peggio mi possa capitare di leggere, o di sentir dire: un’espressione capolavoro nella propria vuotezza, probabile contenitore di menzogne. Polpetta avvelenata della lingua, e nei peggiori dei casi, dei sentimenti.

No, non lo amo proprio, l’amore.

Come non amo altrettanto la parola “passione” e  i suoi derivati, specialmente in un contesto sentimentale. Perchè la trovo una parola scontata, venduta come la “Leggerezza” sui formaggi, la “Purezza” dell’acqua, “L’Onestà” dei candidati a una carica pubblica.

Amore e Passione sono, ai miei occhi, solo pubblicità.

E della pubblicità si portano dietro lo stesso sottinteso: “Io ti dico questa cosa, ma non prenderla alla lettera”. Perché come la pubblicità, le parole “Ti Amo” richiedono un processo critico, prima di essere accettate. Devo sapere da chi vengono, in quale occasione, con quale scopo. E non pensiate che sia cinismo. Voglio che queste parole vengano pesate quando sono io a pronunciarle, alla stessa maniera in cui si pesano gli ingredienti prima di cucinare la pietanza che ci nutrirà prima che si faccia sera. Perché se l’amore esiste, e risponde al nome con cui lo chiamiamo, non somiglia di certo a un gioiello della corona. Non se ne sta appollaiato sulle torri d’avorio, imperturbabile ed eterno. L’amore cambia, come cambia il profumo della cucina di sera in sera, e il sapore che condividiamo seduti intorno alla stessa tavola, stanchi della vita che abbiamo vissuto per poter arrivare a questo momento. E i sapori ed i profumi non si dicono. Si gustano, e al massimo li si racconta.

Ferro 3 – La casa vuota – (Diretto da Kim Ki Duk)

 

Giochi?

 

“Papà! PAPA’!! Vieni!”

Non ha ancora sfumature, la sua voce. Corre a passettini saltellanti dal salotto, chiamandomi a gran voce, senza attendere la mia risposta, né stare a sentire le mie resistenze perché ho le mani occupate. E’ tutto imperativi: vieni, alza, voio, dammi. Alle sue richieste si obbedisce. Certo, non è sempre così, spesso ci tocca dire di no. Non puoi mangiare la frutta prima di cena, non puoi guardare la tv quando è ora di fare nanna, non puoi uscire scalzo sul balcone perché piove. E allora a volte sono capricci, a volte pianti. A volte sono proteste silenziose: seduto con il broncio e le braccia incrociate, ti spinge via con le manine se ti avvicini, e ti fa di no con il ditino sentenzioso. Trenta mesi circa, come li contano ancora certe mamme che ho incrociato al parco giochi, e che ogni volta fatico a tradurre in due anni e mezzo. Trenta mesi uno diverso dall’altro, uno più complicato dell’altro. Due anni e mezzo, e il ditino appoggiato al mento mentre cerca di decidere quale film vuole guardare questa sera. No, certo che non sa ancora leggere. Ma sa di certo riconoscerli dalla forma delle lettere che compongono il titolo, suppongo. E sono minuti interminabili, mentre siede sulle mie braccia ed esamina il catalogo intero dei nostri dvd. “Vuoi guardare i Puffi?” “No” “Madagascar?” “No” “Ape Maia?” “No” “Masha e Orso” “No” “Formiche?” (Sarebbe Bug’s Life) “No” “Guardiamo Alvin?” suggerisce la mamma, stanca di aspettarci seduta sul divano. “No”, risponde lui. “Arancia Meccanica?”suggerisco io, giusto per vedere se cambia opinione.”No. Nononononono….” fa lui, e poi finisce col scegliere i Puffi. Guarderà si e no venti minuti, prima di andare a dormire. E intanto facciamo il riassunto delle novità, il suo asilo, il vasino, il fatto che ha cominciato a pronunciare correttamente il suo nome, e che differenza con le femminucce della sua età che sono tre passi avanti, e ormai chiacchierano irrefrenabili, e che ci vuoi fare: noi maschi siamo un po’ più tordi.

Lui intanto si strofina gli occhi di nascosto, per non far vedere che è stanco.

Oppure i pomeriggi come oggi, quando fuori il mondo è tutto pioggia e nebbia, e chisseneimporta se è maggio. Ci sono tredici gradi scarsi là fuori, e allora noi ce ne stiamo nella tenda da indiani riempita di peluche: la sua tana dell’orso, come la chiama lui. E giochiamo a giochi misteriosi, che ancora è presto per strutturare in modo complesso le sue fantasie. Illumina gli occhi dei pupazzi con la sua pila, la nasconde e finge di averla persa, si tuffa tra gli animali di pezza e vuole che io venga con lui in quel mondo. Ed io mi chiedo se ricorderà tutto questo, la mia voce che lo rincorre per casa e il rumore della pioggia chiuso fuori dalla finestra. I pomeriggi azzurri nel parco giochi davanti a casa nostra, i lividi alle ginocchia quando cade dal monopatino, il rumore della palla da basket dei ragazzi grandi che giocano partite interminabili in attesa che si faccia estate. Di tutto questo, cosa si porterà con se?

I primi ricordi che ho di me stesso non so nemmeno se mi appartengano. Il primo ricordo è arcano: sono in braccio a mia madre, coperto da un sottile velo di cotone, come si usava una volta per proteggere i bimbi dalla polvere onnipresente, e dal sole inclemente. Nient’altro. Non posso avere più di una paio d’anni, forse proprio l’età di mio figlio. Il secondo è di notte. Guardo nel cielo una luna immensa ed un cielo buio, e chiedo a mia madre dov’è mio padre. “Lontano” mi dice. “Quanto lontano?” chiedo ancora. “La vedi la luna? Il papà si trova in un posto lontano quanto la luna.” Ed io, non ancora soddisfatto della risposta, chiedo:”E come farà a trovarci, quando verrà?” E mia madre mi risponde:“Il papà conosce la strada di casa.” Non conoscevo ancora mio padre, non sapevo ancora di quanto l’avrei odiato, che un giorno l’avrei lasciato indietro, che a causa sua oppure semplicemente a causa della vita me ne sarei andato. Che non sarei più tornato. Ma questo ricordo non è puro, non è solo mio. Non avevo ancora tre anni, non posso ricordare. Come molti dei ricordi dell’infanzia, anche questo non è che un complesso di sovraimpressioni: i miei ricordi, e i racconti dei ricordi degli altri di quel momento, e forse anche i sogni, e il ricordo delle tante volte che quel ricordo l’ho sognato.

Il terzo ricordo è la sera in cui lui è tornato. Io ne avevo curiosità, e paura. E non osavo avvicinarmi, né allontanarmi da lui. Ed era sera, lui era stanco e ancora euforico di essere a casa. Si appoggiò con noncuranza al tavolo, ed io cercai di imitarlo. Ma troppo piccolo ancora per raggiungere il bordo del tavolo, caddi seduto. Risero tutti quanti, e mio padre forse rincuorato da questo momento, mi prese in braccio. Non ricordo altro.

Saranno così i ricordi di mio figlio?

Ricorderà questi pomeriggio di pioggia in cui siamo stati insieme? Gli resterà il profumo dei peluche lavati da poco, perché la polvere non si accumuli tra le cuciture? Gli resterà la mia voce che lo chiama, le mie braccia che lo sollevano dal lettino quando finisce il riposino pomeridiano? Si ricorderà di me che cedo alle sue richieste di prendere il basso appeso al muro, e di farglielo suonare?

Sognerà un giorno questi giorni che si susseguono, uno diverso dall’altro, uno più complicato dell’altro? Magari senza un ordine apparente, così: come avvenimenti che accadono tutti insieme al di là dell’orizzonte degli eventi, in un sogno che molti chiamano vita, e che in certi momenti sembra non finire mai.

 

Johanna Newsom: Sapokanikan

 

Volvér

(Quella che a volte provo è una specie di malinconia struggente, o forse persino meno. Un dolore sottile e dolce, lieve come il dolore che si prova a vedere i ragazzi vivere le complicazioni della loro adolescenza, sapendo che la nostra è stata diversa, e quanto l’avremmo voluta diversa. Eppure no, è meno ancora. E’ un rimpianto privo di rimproveri se non contro il tempo che è passato, le opportunità che non ho avuto e non ho saputo, contro l’amore che non ho saputo dare e la differenza che non ho saputo fare. E’ il vago gusto amaro di fare un pensiero che quasi non è che un augurio: che siano felici, che i loro sorrisi non si spengano nella notte e che la vita regali loro, ogni tanto, qualche briciola di luce, quello che basta perché i loro cuori vivano ancora, seppur non sazi. Il gusto amaro che si prova a desiderare di sapere se qualcuno l’ha fatto, questo pensiero, anche per noi. E di sapere che non lo sapremo mai.

Passerà il tempo e i chilometri si faranno anni, gli anni oceani, gli amori dimenticati, le amicizie fotografie ingiallite, le loro voci ricordi, i ricordi confusi, per poi diventare meno ancora: malinconia, solo malinconia infinita. Ma così lieve da sollevarsi al primo refolo di vento, e se siamo fortunati, portarci via con sé.)

 

Vuelvo al sur

Gomitoli

I giorni sono gomitoli di lana. Ogni ora fanno un giro completo, come l’ago sul quadrante degli orologi, e ad ogni giro bisogna trovare il capo del filo, tagliarne via un pezzo, e con quello tessere un pezzo di vita. A ogni ora il capo del filo si perde, lo si cerca e a volte lo si ritrova, a volte no. Bisogna cercarlo ancora, e intanto l’ago sul quadrante dell’orologio fa: Tick, tock…