Habibi

Habibi”, di Craig Thompson, è un’opera impegnativa eppure affascinante da leggere.

Il fatto che si tratti di un fumetto, a dispetto della più precisa definizione di “graphic novel” con cui la si cerca di nobilitare, rende complicata una lettura superficiale, dati i generali pregiudizi sui fumetti. Operazione inutile secondo me, quella di cercare di estrarre questo genere di opere dall’idea che si tratti di “semplici fumetti”. I fumetti hanno abbastanza dignità da potersi difendere da soli.

In “Habibi” infatti, parliamo di letteratura. E come molte delle opere di cui sono solito invaghirmi, questa è una storia d’amore che parte da lontano nel tempo e nello spazio. Il tutto si svolge in un luogo e in un tempo di fantasia, un oggi ipotetico e un qui nemmeno lontano dal reale, intriso delle storie che raccontano delle fondamenta del mondo che conosciamo: neanche tanto nascoste tra i segni di un tratto molto marcato, quasi pesante, si intravedono le radici profonde di una cultura che, in questi tempi più che mai, percepiamo come aliena. Non lo è, ovviamente. Ed è questa probabilmente l’intuizione che si cela dietro le motivazioni dell’autore a scrivere questa storia, e disegnarla.

“Habibi” – un termine arabo traducibile come “mio amato”, e la cui radice è la parola “Habib”, cioè “amico” – è un’opera che ha avuto una lunga genesi, fatta di studi di calligrafia araba e di un desiderio di ritrovare i punti di giunzione tra cristianesimo e islam. Il risultato sono più di seicento pagine di disegni superbi, di parole che diventano ritratti delle idee, e che delle idee che rappresentano prendono la forma. Tavole ricamate di dettagli, dove trovano spazio racconti biblici, teorie sufiste, leggende arabe e richiami palesi al nostro immaginario collettivo.

La stessa struttura del racconto, in ordine cronologico sparso e intervallato da storie mitologiche che diventano parabole della trama, è un forte richiamo alle mille e una notte: La protagonista Dodola è infatti una Sheherazade ancor più leggendaria dell’originale, perché è essa stessa incarnazione delle storie che racconta. Desiderata, anzi: bramata e usata.

Carne su cui si avventano i pregiudizi di una cultura millenaria, ma non per questo esente da orrori che oggi consideriamo fuori dal tempo.

Eppure, al tempo stesso, il suo corpo è veicolo attraverso il quale le antiche storie riprendono vita, e diventano reali. Non diverso è Zam, protagonista anche lui, e anche lui e il suo corpo incarnazione della storia che Dodola racconta e vive nel momento stesso in cui la racconta. Dodola e Zam sono per certi versi l’essenza dell’umanità intera, e il legame che li tiene insieme anche quando finiscono col perdersi ha tante facce, eppure un nome solo: l’amore. Madre e figlio, fratello e sorella, amanti irrealizzabili eppure reali: tutte le storie del mondo e del tempo sembrano essere state scritte per spiegare il significato di questo amore, e in questo senso la loro storia è la storia di qualsiasi amore si sia svelato su questa terra desolata. Le pagine raccontano un percorso accidentato, fatto di violenza subita e attuata, anche a se stessi, e da questo punto di vista l’autore non si risparmia. I disegni da surreali e simbolici diventano brutali, le pulsioni sessuali e la meschinità con cui possono trovare sfogo non vengono mai nascoste né suggerite. E’ tutto davanti agli occhi, senza possibilità di fraintendimenti. Eppure i momenti di svolta avvengono all’insegna della meraviglia, di metafore che prendono forma e antiche storie che riprendono vita: emblematico in questo senso l’episodio in cui Dodola, tenuta schiava all’interno di un harem, viene condannata a morte a meno di riuscire a trasformare una caraffa d’acqua in oro. Cosa che avviene, non certo per via di chissà quale magia risolutrice, cosa che comunque non le restituirà la libertà.

Una minima conoscenza dei testi dell’Antico Testamento oppure del Corano è utile, anche se non d’obbligo, per godere del ricco impianto di riferimenti e rimandi tra testi sacri e leggende che in comune hanno la stessa culla, quel medioriente mitologico e apparentemente lontano in cui Islam e Cristianesimo hanno trovato la via che li ha resi diversi, ma non poi tanto, dall’ebraismo. Un libro comunque da avere, anche se non si è lettori abituali di fumetti, che coinvolge e incuriosisce e che lascia rinnovata una certa meraviglia per un mondo lontano che forse, tanto lontano non è.

Solstizio d’Inverno

La notte si è fermata un momento, in bilico sul proprio silenzio, alla fine di una discesa lunga quanto il mondo, fino al punto più buio della propria orbita. Mi sembra appropriato ora ritornare qui, scrivere qualche parola sperando di poterci coagulare intorno l’intuizione di un pensiero. Ma non lo è. Appropriato sarebbe il silenzio gelido dell’inverno, lo scricchiolio del ghiaccio che si forma sui parabrezza delle macchine parcheggiate al buio, l’assordante fruscìo della neve che si posa un fiocco per volta a seppellire i sogni dietro le porte chiuse, laddove trovano un ultimo rifugio i Sognatori: coloro che sognano ancora, la notte quando la conca del cielo si affolla dei fantasmi delle stelle, ed io di guardia al mondo non posso fare altro che scoprirmi solo.

Ma questo inverno no: niente ghiaccio, niente neve.

Soltanto oggi il silenzio si è fatto tale da farmi ritrovare il coraggio di spegnere le luci, e di rifugiarmi nel punto più nascosto della confortevole garitta da cui vedo passare la notte, e ogni notte le settimane, i mesi, le stagioni, gli anni, la mia vita. Senza pensare a niente, i ricordi accocolati addosso ai sogni ed entrambi a dormire appena fuori dalla porta, riscaldandosi a vicenda. Mi rifugio nel tepore del sollievo di scoprirmi meno povero di quanto pensavo. Mi sono rimasti almeno i ricordi, forse sporcati ma non ancora avvelenati dal tempo che è passato. Mi sono rimaste, se non i sogni, almeno le illusioni da portare a spasso col guinzaglio corto, nei pomeriggi meno freddi di questo dicembre. 

In attesa che questi giorni finiscano. 

In attesa di un lungo sonno riparatore, al riparo da me.