Ogni giorno

Mi sveglio a malapena, senza nemmeno aprire gli occhi. Sposto da parte i resti dei sogni, e sepolta sotto questa spazzatura ritrovo la mia coscienza. I miei muscoli indolenziti si muovono per la prima volta, e una fitta di freddo attraversa la mia colonna vertebrale. Mi raggomitolo su me stesso lentamente, tra le lenzuola appena sfatte, muovendomi per la prima volta da quando sono andato a dormire.

Aspetto.

Poco dopo sarà la sveglia a ricordarmi che è ora di alzarmi. Ma suonerà una volta, ed una volta ancora, e poi tacerà. Se il mio corpo risponde, sarà appena l’una. Più probabilmente sono le tre. Il sole si nasconde ormai tra gli alberi spogli dietro la collina, il pomeriggio volge verso la sera, l’inverno non ha tempo di aspettarmi. Apro gli occhi, e più di qualche secondo è necessario prima di distinguere qualcosa nel buio. Quella è la finestra, con le imposte chiuse e appena un riverbero di luce che filtra da un punto indefinito che non aderisce perfettamente. Queste sono le mie lenzuola, flanella morbida e una coperta pesante sopra. Il comodino bianco, il profilo di un libro che ho dimenticato di star leggendo, appoggiato sopra. Fuori dalla porta c’è il resto della casa. Sicuramente ho da sparecchiare ancora il tavolo della colazione, mettere in ordine i giocattoli di mio figlio in salotto, pulire il bagno. Sicuramente devo ancora ritirare la divisa nell’armadio. Non ricordo nulla, almeno per qualche minuto ancora. Né dove sono, né perché. Mi alzo, cammino e mi sento stanco. Forse più stanco del giorno prima, ma neanche di questo ho memoria.

Inizio la mia giornata così, un processo a metà fra la risurrezione e la presa di coscienza di essere rimasto a terra, dopo che tutto il mondo si è imbarcato a bordo del Giorno, dal pontile del Mattino. Il giorno lo guardo da lontano nel silenzio che circonda la casa. Fuori non ci sono palazzi, le case più vicine distano un centinaio di metri, e a quest’ora del pomeriggio sono vuote. Dall’altro lato il bosco tace, la collina ci separa dal mondo. Non c’è alcun rumore, intanto che decido se provare fame o meno. Il più delle volte, decido di no. Mi spoglio, mi rivesto, certe volte mi preparo un caffé, e già quell’ora e mezza che mi separa dalla fine della giornata lavorativa si esaurisce. Vado a prendere mio figlio, mia moglie rientra stanca dal suo lavoro. Ci si prepara per la cena, si da da mangiare all’ansia, come a un cane domestico troppo grande per l’appartamento in cui viviamo. Si affrontano discussioni, e la mia lentezza da bradipo notturno non fa che esasperare la sua stanchezza. Poi il cielo si fa buio, si accende la tv intanto che io sparecchio e sistemo la cucina. Si è fatta l’ora della nanna. Il bambino va a dormire, tra le proteste stanche. Qualche pianto, benché ormai soltanto qualche volta. Si chiudono le tapparelle, anche se quella della camera da letto non è mai stata aperta. Si spengono le luci, è ora di dormire. Ed io mi sdraio stanco, nel terrore di addormentarmi completamente, con gli occhi sbarrati a fissare le stelle fosforescenti che ho applicato al soffitto, ormai quasi dieci anni fa. La sveglia silenziosa del telefono fissata per le dieci di sera, il respiro di mia moglie che si fa pesante non appena finisce di raccontarmi la sua giornata, e sono di nuovo solo.

Alle dieci di sera la sveglia vibra, ed è già troppo il rumore. Mi alzo dal letto nel buio, e nel buio recupero la divisa dall’armadio, e nel buio mi vesto. Cerco il portafoglio, il telefonino, un cd da mettere in macchina, un libro per passare la notte. Non accendo nessuna luce, non bisogna disturbare, non bisogna svegliare il mondo. A passi felpati mi muovo in una casa che è mia davvero soltanto quando i miei occhi non ne vedono che i contorni sfumati nel buio della sera, ed è mia soltanto per qualche minuto, prima di andare via.

A lavoro la giornata è ormai finita. Gli ospiti sono andati a dormire, resta forse ancora qualcuno da aspettare, qualche lavoro arretrato da finire, le pratiche per il giorno dopo da controllare. Il mio collega si ritira stanco, io prendo posto e verso mezza notte spengo la maggior parte delle luci. Il silenzio si impadronisce del mondo che mi circonda, e il buio pure, e non resta nessun altro a farmi compagnia.

Da quanto va avanti così?

Ogni giorno si ripete a questo modo, la notte si allunga e si accorcia, e si attorciglia in un nodo stretto, come la molla nel cuore degli orologi, e i suoi lembi si allargano a dismisura. I suoi domini sono ampi e silenziosi, ed io li attraverso in un balzo che raggiunge il mattino, il buio mattino dell’inverno prima dell’alba, quando finalmente torno a casa. Mia moglie in piedi, le luci basse, il bambino che si sveglia. E la fretta di essere pronti, perché il giorno inizia e non aspetta nessuno, fare colazione in fretta e non c’è tempo da perdere, mi racconterai questa sera, e ci sono mille cose da fare e, devi proprio andare subito a dormire? Non puoi stare in piedi ancora un attimo? Poi la porta di casa si chiude, preparo il bambino e lo porto da sua nonna. Il sole è già alto, ed è splendido, e certe mattine come oggi il vento soffia e sembra portarsi via ogni nuvola dal cielo, e se si ha abbastanza coraggio di affidargli i propri sogni, può portare anch’essi in un posto migliore.

Sorrido.

Stanco ritorno a casa, e richiudo ancora una volta il giorno fuori dalle mie finestre, e seppellisco me stesso sotto le coperte pesante, e i miei ricordi fuori dalle palpebre, e i miei sogni nel cassetto del comodino. E respiro una volta, una volta soltanto e poi affondo la testa nel cuscino, e mi immergo nel sonno più profondo che riesco a raggiungere, un sonno senza sogni e senza ricordi, un mare buio e silenzioso nel quale abbandonare tutto quanto, senza portare via alcunché.

A domani

Si, certo. Come no.

Ed è che ci si fa prendere dalla nostalgia, e non si sa neanche nostalgia di che. Forse degli anni in cui ancora facevo propositi per l’anno nuovo. Forse per i sogni che man mano mettevo nel cassetto, che un giorno arriverà il momento, che un giorno chissà, magari.

Magari no.

E infine quel giorno forse è arrivato, ed è stato belllissimo. Ma è già passato, non è stato ieri ma un giorno qualunque dell’altro ieri, ed è vero: non è stato quello mi aspettavo. Ma non importa, va bene uguale.

Ora scrivo e a malapena rileggo quel che scrivo, sotto il peso plumbeo del sonno i miei occhi si chiudono. Come le chiuse a trattenere i sogni nel loro bacino, per non farli tracimare. Ma è tardi, ormai. L’alba non è lontana, e dei sogni non rimane che un letto sfatto quando il sole è già piegato verso il tramonto. La chiusa non ha retto, la diga si è lasciata tracimare, il lago è esondato. Dei miei sogni non ne rimane quasi niente.

E mi sorprendo ad augurarmi di non farne più di sogni. Di dormire finalmente un sonno vuoto, silenzioso, cieco. Un sonno in cui poter dormire ancora, e recitare l’unica poesia che ricordo ancora a memoria.

“…Caro m’el sonno, e più l’esser di sasso

finché il danno e la vergogna dura

non veder, non sentir m’è gran ventura

Però non mi destar, deh: parla basso.”

https://www.youtube.com/watch?v=1D5PtyrewSs