Un cuore di terra

Ho un anima liquida, in un cuore di terra.

Iniziava così una vecchia bozza, che da giovane promisi di non smettere mai di scrivere. Da giovani si promettono un sacco di sciocchezze. Poi come spesso succede, la vita prende il sopravvento; e non è che ci si dimentichi delle proprie promesse, è solo che non c’è più il tempo, non è più il momento, ci penserò più tardi.

Non c’è stato più il tempo.

E forse nemmeno l’urgenza. E ammetto che quando la paginetta ingiallita in cui scrivevo un verso per volta, un giorno è sparita dal taccuino, mi è dispiaciuto un po’. Come tutte le persone quando invecchiano, ci si affeziona agli oggetti che hanno un passato. Si diventa un po’ sentimentali. O forse, ci si rivede in quegli oggetti che si logorano, e spariscono senza che dispiaccia ad alcuno. E dispiacendosi per loro, ci si dispiace in realtà un po’ per se stessi.

Insomma, si. Sono diventato vecchio.

E nel timore di farmi travolgere dalle onde degli anni che si infrangono uno dopo l’altro sul bagnasciuga della mia vita, ho deciso di opporre resistenza: rafforzare i muscoli delle gambe e del cuore, spogliarmi di ogni gingillo per preservarlo dall’accidentale perdita tra i cavalloni del mare. Ho deciso che diventato vecchio, volevo diventare anche un pochino cinico.

E così ho smesso di piangere, e di conseguenza: di scrivere. E così ho smesso di fermarmi troppo a meditare, e ho scelto di reagire: di opporre ad ogni azione, una reazione. Così, ho avverato la vecchia profezia del progressista da giovane, che diventa conservatore -e reazionario- da vecchio. Insomma, i fili si tengono, gli argomenti della vita si stringono in cerchio, e pur se sfilacciati e consunti, stanno insieme.

Ma io ho un anima liquida, dicevo. In un cuore di terra.

E quando arriva l’inverno gela: e nella dura terra scava in aghi appuntiti ed affilati, e rompe le radici degli alberi e se le dai tempo abbastanza, attraverso le fenditure bagnate spacca anche le rocce. A questo davvero, non avevo pensato. Ero troppo giovane forse, per scrivere con pazienza delle conseguenze di ogni verso. Ma così dicevo, e così pensavo di me:

Ho un anima liquida, in un cuore di terra.

E quando arriva l’inverno gela,

e in aghi appuntiti sprofonda e si perde nella terra.

Ma il mondo compie la sua traiettoria lungo l’eclittica, e così arriva primavera.

E allora il mio cuore indurito sotto il sole disgela.

E nelle mie parole vedevo la mia anima sciogliersi al sole e bagnare la terra del mio cuore: renderlo morbido e finalmente buono per far crescere i fiori e chissà: magari un domani i frutti. Che bel pensiero. Ma non ho pensato che tornando acqua, la mia anima non sarebbe più rimasta ferma: sarebbe diventata rigagnolo, e avrebbe migrato a valle alla ricerca del fiume del mondo, perché tale è la conseguenza della gravità sul mondo. Portare ogni cosa a valle, finché non si raggiunge il mare. Davvero non ci si ferma a ripensare alle conseguenze di quello che si scrive.

…e quando il sole arde e il mondo si addormenta

e soffoca i tiepidi sogni nell’aria tremula

arida e quieta

l’estate infine si sveglia.

E nei miei occhi la terra del mio cuore diventava polvere, secca e leggera, e arido il cuore abbandonato dall’anima evaporata e andata altrove, si apriva infine una crepa.

Chissà.

Forse in fondo a quella parte della vita ancora dovrò arrivarci. Mi chiedo quale sarà, dunque, il prossimo verso.

Il primo addio

Non sono riuscito a dirti addio. Non è esattamente la mia specialità.

E no, non ho pianto lì per lì.

Come avrei potuto?

Ho pianto prima, molto prima, ma non era dolore. Solo angoscia, dispiacere. E l’ho fatta diventare – ecco, questa invece sì è la mia specialità – l’ho fatta diventare tristezza. Ho pianto quando ho saputo quello che sarebbe successo, che il natale venturo non l’avremmo visto insieme. Ho pianto per te, ho pianto per mio figlio che avrebbe perso suo nonno. Non ho pianto per me, perché non sei stato mio padre. E questo lo dico con un sorriso, senza dispiacere. Perché a me un padre non serviva, e per te un figlio come me era di troppo. Ci abbiamo messo anni, decenni ad aggiustarci. E non abbiamo mai finito di farlo. Ma eravamo famiglia, questo si. Una famiglia strana da spiegare, disfunzionale perché nessuno di noi aveva un ruolo consolidato, tradizionale. Eravamo – siamo – tutti una via di mezzo tra un ruolo e l’altro, tutti un po’ estranei e tutti legati da qualcosa che non è sangue. Forse nemmeno destino. Volontà, fatica, affetto. E una cosa a cui non voglio dare nome: perché non mi è mai piaciuta la parola amore. L’amore è mercanzia a buon mercato, roba buona per la pubblicità. E noi abbiamo faticato troppo per metterla insieme questa famiglia stramba, fatta di amici lontani e parentele informali, per incartarla con una parola tanto banale.

E come avremmo voluto non doverti vedere passare dalle forche caudine dell’inutile dolore, inevitabile attesa del momento che sapevamo certo, e lo sapevamo prossimo. Ma non abbiamo potuto fare quasi nulla per evitarlo.

E quando ti ho accarezzato la mano, un paio d’ore dopo che te ne eri andato, non ho potuto fare a meno di sorriderti. Che lo sapevo che non ti poteva più fare male questa vita. E con una punta di paura mi sono alzato dalla sedia per andare da mio figlio, per dirgli che suo nonno non c’era più. E tutta la rabbia per gli anni in cui ho faticato a portarlo da te, perché c’era chi si opponeva per banale capriccio, e tutta la delusa stanchezza per quel che ho dovuto passare, per poterlo fare diventare tuo nipote, e tutta la tristezza per il tempo che è andato sprecato; tutto si è dissolto di lì a poco quando ho preso mio figlio in braccio, e con le parole più semplici che sono riuscito a mettere insieme, gli ho detto la verità:

Il nonno si è addormentato.

E adesso non c’è più.

E lui, che a differenza di me pare saper portare la tristezza con una purezza che fa male a vederla, tanto è limpida e leggera, non mi ha detto niente: mi ha abbracciato e si è nascosto nella mia spalla, e ha lasciato scorrere una lacrima che dalle sue palpebre mi è caduta sul cuore. Una soltanto, perché una lacrima è sufficiente. E quando si è staccato ha sorriso e no, non ricordo che cosa ci siamo detti. Ma il mondo aveva compiuto un salto, ed ora eravamo dall’altra parte del dolore: e per qualche minuto abbiamo parlato di te. Dei tuoi ricordi che sono rimasti nel nostro cuore, delle foto dei tuoi viaggi, dei libri che hai scritto e delle persone che ti hanno voluto bene, e a cui hai voluto bene.

Così, quando è arrivato il momento di portarti via, avevo già scelto con quale parola ti avrei salutato. E no, non ho voluto dirti addio.

Ti ho detto grazie.