Geografia

Io da bambino l’amavo, la geografia. Un elenco di nomi, dati, numeri, eppure non è mai stata qualcosa di astratto, nonostante io da bambino non avessi mai viaggiato. E’ vero, restava sulle pagine dei libri e negli atlanti. Ma io adoravo e adoro ancora oggi leggere le mappe, pronunciare a mezza voce nomi di città lontane, percorrere col dito le lunghe strade polverose che attraversano il mondo. E’ anche un modo di vivere quello che leggo: Trans Europa Express, di Paolo Rumiz, l’ho letto così questo inverno, con Google Earth aperto nello smartphone, seguendo chilometro per chilometro la lunga strada che unisce il nord europa al mar nero, in quel crogiuolo di storie e genti che è la mitteleuropa. Fermandomi di tanto in tanto ad ammirare le foto dei paesaggi come deve averli ammirati l’autore, spingendo la mia immaginazioni ancora più in là di dove sarebbe arrivata se mi fossi limitato a leggere i nomi di confini che non conoscevo.

La geografia dà un posto alle cose, alla Storia e alle storie degli uomini. Dà un nome, indica una direzione. Propone un viaggio, che anche se non compiuto può sempre essere almeno intrapreso, magari accennato, magari molto meno.

Per lo stesso motivo soffro il fascino delle frontiere. Nonostante ne sia stato vittima, sin da ragazzo sono cresciuto in un’Europa che dissolveva frontiere, le rendeva formali e astratte, e lontane. Lo sapevamo che non era mai stato così, io e i miei amici, e percepivamo di vivere in un mondo che non era stato mai, incapaci di immaginare che anche quell’utopia avrebbe intrapreso questo apparente viale del tramonto che percorriamo oggi. Ma le frontiere politiche non sono le sole. Esistono frontiere più antiche, più arcane. Quella che divide il mare dalla terra, o la terra dal cielo. Una di quelle frontiere ho avuto la possibilità di sfiorarla, di vederla passare sotto i nostri piedi, in questa caricatura del viaggio che è stata, come sempre, la nostra vacanza. Ho visto Punta Ristola farsi vera, riempirsi di dettagli man mano che l’avvicinavamo fino a immaginare di toccare con un dito quel ultimo masso calcareo, divorato ai piedi dalle onde e sospeso di qualche centimetro sopra il mare. E da lì vedere il Mare Ionio dividersi dall’Adriatico, questione di centimetri e poi il fondale che sparisce sotto un mare che da quasi turchese, nel pomeriggio prima del tramonto, diventa cobalto e profondo come un respiro antico, e solleva in onde la superficie e si alza il vento, che si intrufola tra le pietre di una costa scoscesa e nuda, come deve averla vista Enea in fuga dalla furia dei greci.

Non riesco ad evitare di fantasticare, intanto che mio figlio ridacchia delle onde alte che gli spruzzano il viso e si tiene con una mano sola al bordo della barca, e porta con leggerezza quello stesso nome antico.  Un nome che gli ho dato sperando che possa varcar frontiere, visitare terre lontane, e coraggioso e fedele a se stesso possa vivere una vita vera.

Ma non è stato solo mare. E’ stato ammirare le facciate delle chiese Leccesi, e scoprire che l’arenaria non va scolpita ma accarezzata, ammorbidita col siero del latte e lasciata asciugare al vento della storia che in questi posti, in certi momenti sembra essere passato quasi distratto. Sono state le sere nei ristoranti intorno al porto di Gallipoli, col profumo del pescato del giorno che non sembra nemmeno essere uscito ancora dal mare. Sono stati gli scogli ruvidi, come alle mie orecchie disabituate l’accento della gente del posto, e la sabbia gialla e le stelle grandi tanto la notte pare più buia, e lunga, e degna di essere attraversata sognando.

Sono stati come al solito pochi giorni, un salto di quasi mille e duecento chilometri da casa, da farsi in apnea mentre nel sedile posteriore la mia famiglia dormiva e la notte scorreva come l’asfalto: nera, ondeggiante e continua, con l’unico obiettivo di riemergere infine al sorgere del sole, stanchi e finalmente a casa.

Ho sognato

Ho sognato, oggi. Per la prima volta da qualche tempo a questa parte. Ho sognato e i miei sogni non mi hanno svegliato, e anche se il sole sfuggiva allo sguardo, restandosene sempre alle mie spalle, sono stati sogni sereni. Certo, incongrui e inconsistenti, ma sereni.

Ho sognato di nuovo.

E poco importa se sono stati brandelli di sonno, e chissà se poi ho sognato nel pomeriggio, oppure al mattino. Poco importa se prima di dormire il contorno delle cose riverbera nell’aria, ripetendo l’immagine di sé più e più volte. Poco importano le nausee da sonno, il desiderio di premere i pugni contro gli occhi fino a far uscire qualche lacrima. Le farfalle luminose che a volte volteggiano a mezz’aria, e che spariscono non appena i primi riflessi del sole attraversano il parabrezza sporco, mentre guido di ritorno a casa. Poco importano le dita che non obbediscono più come prima ai miei comandi, la palese demenza che piano piano prende possesso di me. I ricordi che svaniscono e si confondono. Il dolore al midollo delle ossa, il sapore metallico in bocca prima di fare colazione. Poco importa, perché ho sognato di nuovo.

Solo, non ricordo più di essermi svegliato.

The dream is collapsing

Le parole degli sconfitti

Post n°431 pubblicato il 07 Giugno 2016 da lab79

Per probabile inclinazione naturale, rifuggo spesso dal cantar le lodi dei vincitori. Insomma, che basti loro la vittoria ed i suoi allori ad allietare il momento. Non sentiranno di certo la mancanza dei miei complimenti. A rileggermi, giungo alla stessa conclusione a cui chi mi legge è forse giunto da tempo: sono le parole di uno snob, un finto originale. Un bastian contrario.

Forse è vero.

Ma forse c’è di vero che nel mio accostarmi ai perdenti c’è identificazione. Chi di voi ha praticato sport agonistici, intuirà più velocemente quello di cui parlo. Il principio per il quale “Il secondo è il Primo degli sconfitti” ha lasciato solchi profondi, senza che neanche me ne accorgessi, dentro di me. Perché per essere sconfitti, non basta la sconfitta. Deve essere memorabile, e deve essere raggiunta con ostinazione ed esercizio. Sudore e sangue. Dolore, e umiliazione. Vergogna, ma mai e poi mai rassegnazione. Essere perdenti significa fare proprie le parole di Samuel Beckett: Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio.  Significa accettare che c’è qualcuno che merita la gloria, e quel qualcuno non siamo noi. Che c’è qualcuno che merita l’applauso, e che dovrà affrontare la menomazione che ne consegue: diventare sordi e ciechi alle intenzioni di chi ci loda, incapaci di distinguere la gioia dall’invidia nelle strette di mano, nelle pacche sulle spalle, negli amici nuovi che si avvicinano, negli amici vecchi che ritornano cambiati. Essere sconfitti significa avere gli occhi limpidi, forse perché lavati dalle lacrime piante quando si spengono le luci della ribalta, per poter finalmente vedere il mondo nei suoi colori più veri. Essere sconfitti significa conoscere la propria forza, e sapere che in realtà non basta, non è mai bastata, né basterà mai.

Significa essere in grado di dire parole di una purezza assoluta, anche se nessuno le ascolterà:

Ali, Frazier & Foreman we were 1 guy. A part of me slipped away, “The greatest piece”

(Alì, Frazier e Foreman eravamo una persona sola. Una parte di mè è scivolata via. La più grande.)
George Foreman, il giorno della morte di Muhammed Alì

Legge del contrappasso

-”Io questi immigrati non li posso vedere: vengono qui e fanno come se fossero a casa loro, si prendono le nostre cose, noi diamo loro tutto quello che vogliono e si lamentano pure!”

-”A-ha. Capisco..”

Intanto è seduto nel mio salotto, con una delle mie birre in una mano, e una galletta senza glutine nell’altra, perché è celiaco e mi ha chiesto espressamente se poteva avere qualcosa senza glutine. Ed io sono pure immigrato.

Nuvole

C’è un cielo color della terra, che rapidamente volge al grigio. E’ indubbiamente estate. Si accumulano sospese a mezz’aria nuvole cariche di elettricità, sospingono lievi l’aria che entra dalla porta, portando con sé refrigerio e una sensazione di attesa. Attendo, dunque, il primo vero temporale estivo, il primo che brontoli impaziente la sua voglia di pioverci addosso, per poi farlo quasi gentilmente, con una lentezza saggia, come quella che si riconosce ai vecchi. La strada si acquieta, è sabato sera ma chi è nei dintorni tace, distratto dalla partita alla tv.  Scrivo, intanto, tengo le luci basse per qualche minuto ancora e aspetto le prime gocce di pioggia per correre a chiudere le porte.

Non ho quasi pensieri.

Soltanto l’imperfetta intuizione di quanti temporali abbia visto questo mondo, prima che per l’uomo arrivasse l’alba. Quante nuvole immense si sono affacciate a questo orizzonte, quante piogge hanno slavato i monti, quanta acqua ha bevuto questa terra. Quanto breve è la nostra esistenza in quanto specie, e quanto fragile il miracolo di afferrare il senso della nostra presenza qui, ed ora, per ora e per questo istante.

Quest’istante che è già finito.

Una famigliola di turisti francesi entra dalla porta. Le bambine hanno l’aria monella di chi sa di stare facendo tardi, e di farla franca. Sorridono stanchi, si incamminano verso le loro stanze rimproverando le bambine per il rumore, senza troppa convinzione. Io sorrido, incapace di confessare in altro modo che la loro presenza mi rincuora, e non importa se non ci siamo mai incontrato prima d’ora, se non condiviamo la stessa storia né la stessa idea della storia. Viviamo sotto lo stesso cielo, solitari e chissà per quanto ancora, prima che arrivi la prossima pioggia a slavare questa sponda del cielo e portarci via, nella schiuma del mare.

Risuona il primo tuono.

Cade la prima goccia.

Clouds, Ezio Bosso